mercoledì, giugno 14, 2006

 


"O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri piú alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi... da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensí in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre piú rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo piú tardi a incorporare nei nomi le forme).
Ai piedi della scarpata, di fronte al viottolo che ne partiva, e pareva col suo rigo chiaro rassicurarmi cosídel repentaglio che m’ero lasciato alle spalle come dell’orridezza nuova dell’aria, esitavo un momento, inattesa che mi si calmasse nella gola il batticuore dell’avventura, e gli occhi prendessero confidenza con le visioni del sottobosco e la loro bambinesca mobilità. Cadutoil vento, la cui mano m’aveva a piú riprese, come la mano di un complice, trattenuto o sospinto nella discesa, il silenzio era pieno; i miei passi, quelli di un’ombra. Nonrestava che procedere un poco, ed ecco, al posto di sempre, purgatorialmente seduti a ridosso l’uno dell’altro, uomini vestiti d’impermeabili bianchi, e si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili. M’avvicinavo a loro con un turbamento che l’abitudine non rendeva minore. Essi levavano mestamente la fronte, tutt’insieme accennavanoun divieto, mi gridavano con spente orbite: vattene via. Non mi riusciva di obbedire, ma in ginocchio, aqualche metro di distanza, torcendomi le dita dietro la schiena, aspettavo che uno si muovesse, il piú smunto, il piú vecchio, una serpaia di rughe fra due lembi di bavero, e semplicemente curvandosi a raccattare una pietra, rivelasse dietro di sé, sulla soglia di un sottosuolo finora invisibile, botola di suggeritore o fenditura flegrea, la dissepolta e rapida nuca di lei, Euridice, Sesta Arduini,o come diavolo si chiamava.
«Férmati,» gridavo «madre mia, ragazza, colomba», mentre sentivo il tozzo polpastrello del sonno che mi suggellava le palpebre bruscamente detumefarsi, dissiparsi in bolla di schiuma, in vischioso collirio di luce. Soltanto in quell’istante, riaprendo gli occhi, capivo d’avere ancora una volta giocato a morire, d’avere ancora una volta dimenticato, o sbagliato apposta, la parola d’ordine che mi serviva.

Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell’estate del quarantasei, nella camera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinata dietro, di stazione in stazione, con le dita aggranchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare, minuscola bara d’abete per i miei vent’anni dai garretti recisi. Non avevo altro bagaglio, né vi era dentro gran che: un pugno di ricordi secchi, e una rivoltella scarica fra due libri, e le lettere di una donna che ormai divorava la calce, fra Bismantova e il Cusna, sotto un cespuglio di fiori che avevo sentito chiamare aquilegie. A me meno frigide ghirlande erano promesse, appena la franchigia fosse scaduta e mi fossi stancato di raccogliere in difesa, come un quadrato di veterani, isentimenti superstiti che mi facevano vivo. Non mancava molto oramai: già erano scomparse l’incredulità e la vergogna dei primi tempi, quando ogni fibra è persuasa ancora d’essere immortale e si rifiuta di disimpararlo. Ma sopravviveva il rancore, anche se sotto la specie di una loquace pietà di me stesso. Un re forestiero m’eravenuto ad abitare sotto le costole, un innominabile minotauro, a cui dovevo giorno per giorno in tributo una libbra della mia vita. E inutilmente il cuore, il quale possiede non meno che la vista, un suo prezioso potere d’accomodo, s’affannava a ripetermi ch’ero stato io a sceglierlo, quel male, per pulire superbamente col mio sangue il sangue che sporcava le cose, e guarire, immolandomi in cambio di tutti, il disordine del mondo. Non serviva. Non serve mai, solo al fine di consolarsene, nobilitare un destino che ci è giocoforza patire. E quindi, benché della mia cristiana assunzione di colpa io mi vantassi volentieri in versi su un quaderno di carta da macero, non cessavo, in una piega della mente, di considerarmi un ostaggio provvisorio in mano al sinedrio, spiavo di soppiatto le risorse di scampo che mi restavano, alzavo le braccia solo per finta. Sarebbero presto venuti a darmi di lancia, sotto il patibolo, fantaccini sudati, perché dovevano. Ma era bello, nel frattempo, consentire all’evidenza del giorno, all’ingiunzione d’esistere che intonavano a gara ogni mattina i centomila galli della Conca d’Oro con quelle loro fanfare. Ogni differimento, del resto, serviva a rendere sempre piú cavillosa e tenera l’intimità con la prossima fine, tanto da farla rassomigliare un poco a una scherma d’amore: gli stessi allettamenti e ripulse e astuzie d’occhi e fiacchezze di fanciulla, prima della decisiva capitolazione nel buio. Cosí non c’era giorno o notte, alla Rocca, che la morte non m’alitasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza; ch’io non ne intravedessi, in una striscia di luce o in un mucchietto di polvere, le imbellettate fattezze, ora d’angelaora di sgherra. Lei era la meridiana che disegnava sul soffitto delle mie insonnie le pantomime del desiderio; lei, la tagliuola che mi mordeva il calcagno; il mare di foglie che il sole tramuta in brulichío di marenghi; lei, la buca d’obice, l’in pace, le quattro mura di ventre dove nessuno mi cerca.

In una condizione cosí teatrale, in bilico fra vanagloria e spavento, trascorsi una settimana dopo l’altra, senza imparare quasi né un luogo né una persona, non vedendo altro che una faccia, la stessa, davanti a me: come chi cammina in un corridoio, e ha dietro un lume, e in fondo c’è uno specchio. Fossi riuscito a resistere cosí sino alla fine, avessi evitato di colluttare, oltre che con la mia, con la dannazione e salvezza degli altri tutti: del dottore, del frate, della ragazza!" (Gesualdo Bufalino, Diceria dell'untore)
Comments:
sento un frastuono.... continua tu.

 

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